
Cammino di Santità
Dal seme (Francesco d’Assisi) è cresciuta una pianta secolare e fiorente (Famiglia Francescana); da un innesto mariano (in Massimiliano Kolbe, frate minore conventuale) è apparsa una nuova fioritura (Milizia dell’Immacolata).
Non si può capire il carisma di Massimiliano Kolbe e la Spiritualità della Milizia dell’Immacolata se non si tiene presente la pianta sulla quale il nuovo carisma è stato innestato e dal quale è fiorita la nuova spiritualità.
Evidentemente, entrambi i carismi sono Vangelo puro, le due spiritualità sono variazione di colore, di modalità:
Francesco: all’ ascolto del Vangelo ha esclamato:
_“questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!” (1 Cel. 22 – FF 356)
Massimiliano: alla proposta delle due corone bianca (purezza) e rossa (martirio) ha esclamato:
_ “le voglio tutte e due!” (come testimonia la mamma in una lettera al Convento di Cracovia).
Due spiritualità: la stessa fonte, lo Spirito Santo; la stessa mèta, la santità!
Tra il primo e il secondo inizio sono passati sette secoli, ma… per il Signore “mille anni sono come il giorno di ieri che è passato! (Salmo 90,4)
Francesco santo è stato seguito da Antonio, Bonaventura, Duns Scoto,… Massimiliano Kolbe…
Massimiliano Kolbe, santo e martire, è stato seguito da Girolamo Biasi, Antonio Mansi, Quirico Pignalberi… per i quali è già stato avviato il processo di beatificazione!
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Francesco d’Assisi nacque ad Assisi (Italia) nel 1181/1182. Dopo una giovinezza spensierata, si convertì e da lui ebbe origine l’Ordine dei Frati Minori, comunemente noti come Francescani. Una giovane donna, Chiara d’Assisi, volle condividere la sua scelta di vita e da lei nacque l’Ordine delle Sorelle povere, che più tardi vennero chiamate Clarisse.
Egli ispirò anche la nascita del Terz’Ordine Francescano, chiamato oggi Ordine Francescano secolare. Nel 1219-1220 Francesco si recò in Egitto, dove incontrò il Sultano; questo incontro ispirò anche la nascita della Custodia di Terra Santa, che è la antica presenza francescana a Gerusalemme e nei luoghi santi.
Nel 1224, sul monte della Verna, Francesco ricevette le stimmate. L’anno seguente compose il Cantico di frate sole, una poetica preghiera di lode a Dio creatore di tutto; questa preghiera e il suo atteggiamento di rispetto verso la creazione ispirarono la sua proclamazione (1979) a patrono dei cultori di ecologia. Francesco morì il 4 ottobre 1226 ad Assisi e fu dichiarato santo nel 1228.
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Sant’Antonio è nato in Portogallo, a Lisbona, nel 1195. Una tradizione molto tardiva indica la data del 15 agosto. Figlio di genitori nobili, sappiamo che venne battezzato con il nome di Fernando.
Trascorre i primi anni di formazione sotto la guida dei canonici del Duomo. Saranno anni preziosi per la sua formazione e discernimento.
A circa 15 anni entra nel convento agostiniano S. Vincenzo, fuori le mura di Lisbona, per aderire al progetto di consacrazione a Dio che aveva maturato.
Vive qui per circa due anni. Poi, probabilmente per evitare le distrazioni causate da amici e parenti della città, col permesso dei religiosi si sposta a Coimbra, a quel tempo capitale del Portogallo, dove sorge un’altra abbazia di canonici agostiniani.
Rimarrà a Coimbra 8 anni, approfondendo la sua formazione religiosa e dedicandosi allo studio delle scienze umane, bibliche e teologiche: i frutti di questo studio lo renderanno uno degli ecclesiastici più colti dell’Europa degli inizi del Duecento.
A soli venticinque anni viene ordinato sacerdote.
E’ nel 1220 che Fernando viene a contatto con i frati minori, religiosi animati da Francesco d’Assisi nella lontana Italia. Infatti le reliquie di cinque missionari francescani torturati e uccisi in Marocco vengono portate a Coimbra, nella chiesa di Santa Croce, proprio dove si trovava Fernando. E’ di questo periodo il probabile contatto più approfondito con i primi francescani giunti in Portogallo.
L’incontro si rivelerà fondamentale nel percorso di fede del giovane religioso: con grande sorpresa di tutti, nel settembre 1220 decide di lasciare i Canonici agostiniani per entrare a far parte dei seguaci di Francesco d’Assisi. Per l’occasione, abbandona il vecchio nome di battesimo per assumere quello di Antonio.
Antonio matura una forte vocazione alla missione e, in particolare, al martirio: e con questo ideale parte alla volta del Marocco.
Giunto in Marocco però Antonio contrae una grave e non ben precisata malattia: è costretto al riposo forzato e non può predicare. Dopo qualche tempo - non guarendo - non gli resta che arrendersi alla volontà di Dio e rimpatriare. Ma la nave su cui si era imbarcato per il ritorno viene spinta da venti contrari fino alla Sicilia, con un rovinoso naufragio.
Da qui, dopo una convalescenza di un paio di mesi, si reca ad Assisi: è l’occasione propizia per incontrare Francesco d’Assisi che nella Pentecoste del 1221 aveva convocato tutti i frati. Sarà un incontro semplice ma capace di confermare la scelta di Antonio nella sequela di Cristo per mezzo della fraternità e minorità francescane.
Antonio è invitato a recarsi in Romagna, all’eremo di Montepaolo, vicino a Forlì, per dedicarsi alla preghiera, alla mediazione e all’umile servizio ai confratelli.
Nel settembre 1222 si celebrano a Forlì le ordinazioni sacerdotali. Secondo la leggenda viene meno il predicatore invitato per l’occasione: Antonio - religioso e sacerdote - viene invitato a sostituirlo: è la rivelazione del suo talento come predicatore. Nonostante sia straniero, dalle sue parole emergono la sua profonda cultura biblica la semplicità d’espressione.
Da quel giorno Antonio viene inviato sulle strade del nord Italia e del sud della Francia per animare con la sua predicazione del Vangelo genti e paesi spesso confusi dai dilaganti movimenti ereticali del tempo. Avrà anche parole di correzione per la decadenza morale di alcuni esponenti della Chiesa.
Sul finire del 1223 ad Antonio viene proposto anche di insegnare teologia a Bologna, compito che svolge per due anni, all’età di 28-30 anni. Sant’Antonio è dunque tra i primi religiosi dediti all’insegnamento della teologia nella fraternità minoritica, ricevendo per questo l’approvazione di san Francesco in persona attraverso una lettera a noi giunta.
Sappiamo che nel 1226 Antonio è a Limoges, in Francia; non abbiamo notizie chiare sul tempo del ritorno in Italia. Le agiografie indicano però la sua presenza ad Assisi nel Capitolo generale dei Frati minori, tenuto in Assisi per la Pentecoste il 30 maggio 1227.
Antonio, per i talenti che dimostra di saper mettere a servizio del Regno di Dio, riceve anche l’incarico di Ministro provinciale (ossia guida delle fraternità francescane) del nord Italia, con molta probabilità nel triennio 1227-1230. L'incarico comporta la visita di numerosi conventi dell'Italia settentrionale. Antonio dimostrerà poi di prediligere la città di Padova e la piccola comunità francescana presso la semplice chiesa di Santa Maria Mater Domini.
In questa città Antonio farà un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231, durante il quale muore precocemente. Nonostante il periodo sia così relativamente breve, con questa città Antonio instaura un fortissimo legame.
L’Assidua, prima biografia di sant'Antonio, afferma che scrisse i suoi Sermones per le domeniche durante un suo soggiorno a Padova. Nonostante la notizia non sia del tutto fondata, è certo che questo voluminoso testo (rivolto in modo particolare ai confratelli per formarli alla predicazione) esprime bene la grande scienza teologica del religioso che - dopo la canonizzazione - riceverà anche il titolo di Dottore della Chiesa.
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Duns Scoto
(1265ca-1308)
BEATIFICAZIONE:
- 20 marzo 1993
- Papa Giovanni Paolo II
Sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori di S. Francesco d'Assisi, che, di origine scozzese, maestro insigne per sottigliezza di ingegno e mirabile pietà, insegnò filosofia e teologia nelle scuole di Canterbury, Oxford, Parigi e Colonia
Egli fu sempre mosso nella sua esistenza non dalla contenziosa singolarità del vincere, ma dall’umiltà di trovare un accordo
Nato in Scozia verso il 1265, Giovanni Duns Scoto, al secolo John Duns, fu detto “Beato” quasi all’indomani del suo pio transito, avvenuto a Colonia l’8 novembre 1308. In tale diocesi, come pure in quelle di Edimburgo e di Nola, oltre che nell’ambito dell’Ordine Serafico, gli fu reso nei secoli un culto pubblico che la Chiesa gli ha solennemente riconosciuto il 6 luglio 1991 e che oggi conferma.
Il Beato Duns Scoto si presenta non solo con l’acutezza del suo ingegno e la straordinaria capacità di penetrazione nel mistero di Dio, ma anche con la forza persuasiva della sua santità di vita che lo rende, per la Chiesa e per l’intera umanità, Maestro di pensiero e di vita;
Egli costituisce un esempio di fedeltà alla verità rivelata, di feconda azione sacerdotale, di serio dialogo nella ricerca dell’unità.
fonte: Cause dei Santi
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Massimiliano Kolbe nasce il 7 gennaio 1894 a Zduńska-Wola, in una regione polacca controllata dalla Russia. Il padre, un tessitore, e la madre, una levatrice, sono ferventi cristiani: nel Battesimo scelgono per lui il nome di Raimondo. Frequenta la scuola dei francescani a Leopoli. Nel 1910 entra nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali assumendo il nome di Massimiliano. Inviato prima a Cracovia e poi a Roma, qui resta sei anni, laureandosi in filosofia all’Università Gregoriana e in teologia al Collegio Serafico. Viene ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.
La Milizia dell'Immacolata
A Roma, mentre gioca a palla in aperta campagna, comincia a perdere sangue dalla bocca: è tubercolosi. La malattia l’accompagnerà per tutta la vita. Fonda con il permesso dei superiori la “Milizia dell’Immacolata”, associazione religiosa per la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria. Ritornato in Polonia, a Cracovia, pur essendo laureato a pieni voti, a causa della malferma salute non può insegnare né predicare, non potendo parlare a lungo. Sempre col permesso dei superiori, si dedica alla promozione della “Milizia dell’Immacolata”, raccogliendo numerose adesioni fra i religiosi del suo Ordine, professori e studenti dell’Università, professionisti e contadini.
Il successo della rivista "Il Cavaliere dell'Immacolata"
Durante il Natale del 1921, padre Kolbe fonda a Cracovia un giornale di poche pagine, “Il Cavaliere dell’Immacolata”, per diffondere lo spirito della “Milizia”. Trasferito a Grodno, a 600 chilometri da Cracovia, crea una piccola tipografia per la stampa del giornale, con vecchi macchinari: con questa iniziativa riesce ad attirare molti giovani, desiderosi di condividere uno stile di vita francescano ispirato a Maria. Il giornale si diffonde sempre di più. A Varsavia, grazie alla donazione di un terreno da parte del conte Lubecki, fonda “Niepokalanów”, la ‘Città di Maria’. Il centro si sviluppa rapidamente: dalle prime capanne si passa a edifici veri e propri, la vecchia stampatrice viene sostituita dalle nuove tecniche di composizione e stampa. Il “Cavaliere dell’Immacolata” raggiunge in breve una tiratura di milioni di copie, mentre vengono creati altri sette periodici.
La Città di Maria in Polonia e in Giappone
Con l’ardente desiderio di espandere il suo Movimento mariano oltre i confini polacchi, Kolbe si reca in Giappone, dove fonda la “Città di Maria” a Nagasaki. Qui, dopo l’esplosione della prima bomba atomica, avrebbero trovato rifugio gli orfani di Nagasaki. Collabora con ebrei, protestanti e buddisti, certo che Dio sparge semi di verità in ogni religione. Apre una Casa anche ad Ernakulam, sulla costa occidentale dell’India. Per curare la tubercolosi, torna in Polonia a Niepokalanów.
Niepokalanów, rifugio per profughi ed ebrei
Dopo l’invasione della Polonia, il 1° settembre 1939, i nazisti ordinano lo scioglimento di Niepokalanów. Ai religiosi costretti a lasciare il centro, padre Kolbe raccomanda una sola cosa: “Non dimenticate l’amore”. Restano circa 40 frati, che trasformano la cittadina in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi. Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevano padre Kolbe e gli altri frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove vengono inaspettatamente liberati l’8 dicembre. ritornati a Niepokalanów, riprendono la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati, di cui 1500 ebrei. Dopo qualche mese, però, i rifugiati vengono cacciati o catturati e lo stesso Kolbe, dopo il rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi, è imprigionato il 17 febbraio 1941 insieme a quattro frati. Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, è costretto a indossare un abito civile, perché il saio francescano “disturbava” i nazisti. Il 28 maggio viene trasferito nel campo di sterminio ad Auschwitz. Con il numero 16670, viene messo insieme agli ebrei perché sacerdote e addetto ai lavori più duri, come il trasporto dei cadaveri al crematorio.
La vita ad Auschwitz e la testimonianza nel bunker
La sua dignità di sacerdote incoraggia gli altri prigionieri. Un testimone ricorda: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio è trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri sono addetti alla mietitura nei campi. Uno di loro riesce a fuggire: per questo dieci prigionieri vennero destinati dai nazisti al bunker della morte. Padre Kolbe si offre in cambio di uno dei “prescelti”, un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. La disperazione dei condannati viene trasformata nella preghiera comune guidata da padre Kolbe. Dopo 14 giorni rimangono in vita solo in quattro, fra cui padre Massimiliano. Allora le guardie decidono di abbreviare la loro agonia con una iniezione di acido fenico. Padre Kolbe porge il braccio, dicendo “Ave Maria”: sono le sue ultime parole. E’ il 14 agosto 1941.
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Giuseppe Pietro Pal nacque il 6 ottobre 1889 a Zapodia in Moldavia (Romania), da Rosa e Michele Pal.
All'età di 16 anni nel 1905, entrò nel Seminario dei Frati Minori Conventuali di Halaucesti.
Compiuto l'anno di Noviziato, il 31 ottobre di 1909 emise la Professione semplice.
Nel 1912 giunse in Italia per proseguire gli studi filosofici nel Collegio di Montottone (Marche), dove s’incontrò con Fr. Antonio Glowinski.
Emise i Voti Solenni nel 1913 nel Collegio di Montottone.
Il 18 ottobre 1913 fu trasferito a Roma al Collegio Serafico Internazionale, diventando amico e consigliere di fra Massimiliano.
Il 22 aprile di 1916, con singolarissima dispensa del Papa Benedetto XV, viene ordinato sacerdote al primo anno di teologia, con la clausola di proseguire gli studi del Collegio, senza esercitare uffici o servizi pastorali.
Il 23 aprile, domenica di Pasqua, celebrò la sua prima Messa sulla tomba di S. Pietro.
Nel 1919, dopo sette anni di permanenza a Roma, Padre Pal ritornò in Romania, dove fu nominato guardiano e parroco della Chiesa parrocchiale a Liuzi-Calugara.
Venne eletto in seguito Ministro Provinciale della Provincia «S. Giuseppe», carica che esercitò per 15 anni, fino alla morte.
Nel 1941 Padre Pal pubblicò il primo volume della sua opera «L'origine cattolica della Moldavia»; l'anno seguente il secondo volume. Attraverso quest'Opera di alto valore storico e apologetico, salvò i cattolici moldavi da sicura deportazione. Nel 1947, durante la novena in onore di S. Antonio di Padova, Padre Pal si recò presso un malato di tifo che voleva riconciliarsi, contraendo la malattia.
Il 21 giugno 1947 Padre Pietro Giuseppe Pal, al canto della Salve Regina e del “Sub tuum praesidium”, morì fissando l'immagine del Cuore Immacolato di Maria.
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Padre Antonio Maria Glowinski nacque a Galati (Romania) il 12.06.1892, vigilia della festa di S. Antonio di Padova, per cui al battesimo, che ricevette nella locale chiesa parrocchiale dei Frati Minori Conventuali, gli fu imposto il nome di Antonio. Il padre di origine polacca, la mamma di origine rumena.
Antonio era mite, equilibrato, misurato nelle parole, impegnato nello studio.
Terminato il liceo, Antonio sentì la chiamata alla vita consacrata nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali, nella cui chiesa parrocchiale tutti i giorni partecipava alla S. Messa.
Nel settembre 1911 fu inviato ad Assisi per compiere l'anno di noviziato. Il 7 novembre 1912, sulla tomba del Serafico Padre emise la sua professione semplice. Successivamente fu inviato a Montottone (Marche) per il corso filosofico e a Roma al Collegio Serafico per la Teologia dove, il 16 dicembre 1915, emise la professione solenne. Il 10 agosto 1917 fu ordinato sacerdote dal Card. Vicario Basilio Pompilj. I superiori, constatata la sua profonda intelligenza, disposero che si preparasse per conseguire la laurea in Teologia, che ottenne il 06.09.1918.
Il 13 settembre, P. Glowinski partì per Assisi. Nell'antico convento dell'eremo delle Carceri sul monte Subasio, si trovavano migliaia di prigionieri della prima guerra mondiale, fra i quali vi erano un centinaio di romeni della Transilvania.
P. Antonio si recava spesso fra questi connazionali portando aiuto materiale e spirituale. Insieme a Padre Pal aveva fatto stampare un libretto di preghiere in lingua romena con brevi considerazioni sulle principali verità della fede, e che distribuì a tutti i prigionieri. In quell’anno 1918 in tutta l'Europa imperversava la grande influenza pandemica, chiamata «spagnola». P. Glowinski la contrasse in una visita ai prigionieri romeni.
SK 1040
P. Antonio Głowiński aveva continuato a prepararsi agli ultimi esami per la laurea in teologia. Dopo di averli superati, fu mandato ad Assisi, patria di s. Francesco, per un periodo di riposo, prima di tornare definitivamente in Romania. Lungo il viaggio sostò ad Amelia.
Ci rimase per breve tempo, ma non dimenticherò mai la semplicità, la purezza e la bellezza dell'anima che trasparivano dal suo volto.
Un mese più tardi, la notizia: “Mentre stava facendo visita ai prigionieri di guerra rumeni (dalla Transilvania) p. Antonio è stato colpito dalla febbre spagnola; si è messo a letto con la febbre già alta, si è aggravato e ormai ha ricevuto gli ultimi sacramenti”. Poco dopo una notizia ancor più dolorosa... “È morto”. ... Ma è morto da santo.
Non solo non bramava rimanere a lungo su questa terra, ma anzi in un'occasione, durante gli ultimi giorni di vita, essendosi addormentato dopo la s. comunione ed essendosi svegliato poco dopo, aveva detto:
“Oh, quanto mi dispiace essermi risvegliato ancora su questa terra!”.
“E perché?”, gli fu chiesto. “Perché speravo di svegliarmi in paradiso”.
Sua sorella, attualmente religiosa della Congregazione delle Suore di Nostra Signora di Sion, così scrive di lui: “Non dimenticherò mai il suo atteggiamento nell'andare in chiesa per la s. Messa delle 7.30, durante le vacanze scolastiche. Lungo la strada manteneva un rigoroso silenzio, poiché le prime parole dovevano essere per il buon Dio.
Dopo la s. Messa e il ringraziamento (e alla s. comunione si accostava ogni giorno, se poteva) ritornavamo - la mamma, mio fratello ed io - comunicandoci i santi pensieri ci erano venuti in mente mentre eravamo in chiesa”.
Più avanti ella scrive: “Quante preghiere, giaculatorie, comunioni spirituali e mortificazioni egli facesse ogni giorno, lo potevo immaginare da quello che raccomandava a me di fare”.
Aveva predetto il giorno della propria morte. Gli fu chiesto da chi lo avesse saputo, e aveva risposto: “Me l'ha detto il mio angelo custode”.
E morì realmente il giorno predetto, il 18 ottobre 1918, verso le 9 di sera.
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Nacque il 7 dicembre 1897 a Sfruz (Trento), da Giovanni e da Rosa Fedrizzi, terzo di nove figli. Al battesimo ricevette il nome di Arcangelo, che nel giorno della vestizione religiosa cambiò in quello di Girolamo.
A dodici anni, nel 1909, entrò nel Collegio di Camposampiero (Padova) dei Frati Minori Conventuali.
Il 4 ottobre 1915 emise la professione semplice; quindi nell'ottobre del 1916 venne trasferito a Roma, dove il 18 luglio 1918, presso l'Ateneo Lateranense si laureò in filosofia e l'8 dicembre 1918 emise la professione solenne.
Nella fondazione della M.I., Fra Girolamo occupa un posto privilegiato, giacché "tornando dalla Vigna", confessa padre Kolbe "per la prima volta misi al corrente di dare inizio all'Associazione fra’ Girolamo Biasi e padre Giuseppe Pal".
Nella prima riunione, tenuta dopo i vespri della sera del 16 ottobre 1917, in cui ebbe inizio la M.I., fra’ Girolamo Biasi fece da segretario.
Ammalato di tubercolosi, nel luglio 1918 fra’ Girolamo venne inviato a Genova nel convento di Bolzaneto, per rimettersi in salute. Trascorso il periodo di riposo tornò a Roma, ma in dicembre fu costretto a interrompere gli studi per il male che lo consumava. Venne richiamato in Provincia e destinato all'Arcella a completo riposo. Migliorate le condizioni fisiche, nel 1920 riprese il corso di teologia a Padova.
Il 16 luglio 1922 a Padova, nella Basilica della Madonna del Carmine, fu ordinato sacerdote dal vescovo Mons. Pellizzo. Celebrò la prima Messa sull'Arca del Santo, in seguito fu destinato a Venezia, alla parrocchia di S. Maria Gloriosa con l'ufficio di coadiutore.
Sette lunghi anni, trascorsi da un ospedale all’altro, tra Venezia, S. Pietro di Barbozza, Cherso, Pola, Pirano, Camposampiero. Nel suo cammino carico di sofferenza, seppe tener viva la fiamma della speranza, accettando la volontà di Dio, se pur desiderando la guarigione per poter lavorare nella vigna del Signore.
In mezzo alla sofferenza, riuscì a donare serenità e letizia ai frati e ai malati incontrati nei diversi ospedali, nonostante la più completa inattività e la solitudine a cui fu condannato. In quel suo letto di sofferenza, padre Girolamo pregava offrendo così, in modo eroico, il suo servizio sacerdotale.
Egli scriveva: "Gesù non vuole da me cose straordinarie, vuole però che Gli sia fedele nelle cose piccole e che in queste gli dia prova del mio amore". E ancora " La perfezione non consiste in cose ardue e difficili, ma nell’esatto disimpegno dei propri doveri, accompagnato da un grande amore verso Dio e da un’ardente carità verso il prossimo".
Nella vigilia di S. Luigi Gonzaga, 20 giugno 1929, all'Ospedale di Camposampiero (Pd), moriva a 32 anni, sorridendo come era vissuto.
Riposa in una Cappella della Chiesa di Camposampiero.
Il 17 novembre 2000 gli è stato riconosciuto il titolo di Servo di Dio. Sta ora procedendo la sua causa di beatificazione.
990A - Appunti di cronaca, 1930
Gennaio
24 V. - Camposampiero (ore 8.50). Alla tomba di p. Girolamo Biasi. Poi, all’ospedale. P. Girolamo, sorridente, cantava le canzoncine della Madonna: “Ave Maria”; “Andrò a vederla un dì” (più comune); sempre parlava della Madonna; i discorsi si finivano colla Madonna. “Il S. Luigi”, dicevano tutti, pregava sempre. Leggeva il libro della Teresina del Bambino Gesù e di Lourdes. Raccontava.
“Cosa sarà in paradiso, che festa in paradiso”. Un ubriaco in fosso, salvare l'anima dell'ubriaco: si alzò dal letto e andò al fosso dove c'è questa anima da salvare. Quando qualcuno diceva qualche cosa non buona, gli veniva detto: “Sta' zitto, perché ci sente il P. Girolamo, faremo un dispiacere al P. Girolamo, se ci sente”.
Quando suonava la campana, e lui andava per la Messa, tutti si mettevano composti, perché passa “S. Luigi”.
Negli ultimi giorni non era tanto sorridente quando soffriva.
“Siccome non mi fai, Madonna, la grazia di guarire, dammi la rassegnazione”. “La nostra Mamma, Mamma dolcissima, Mamma mia, aiutami”.
“tante volte si è alzato di notte per guardare gli ammalati”. Da 1920-1921 1 anno, 1 e mezzo, da 1924 5 anni.
Ha bruciato tutti i manoscritti per essere sicuro. Per tutto il tempo nessun difetto e sempre ogni virtù e non nasconde niente.
Ho raccomandato alla suora di mettere per iscritto e di consegnare al P. Guardiano Ferdinando Basso.
Ho preso gli appunti personali di p. Girolamo (il resto lo ha bruciato), per poterli leggere almeno superficialmente.
24 V. - Tornando a Padova, dò una lettura ai documenti conservati nella stanza del Provinciale; ho trovato solo un appunto, abbastanza bello, nel quale si lamenta con l'Immacolata, che a Lourdes non gli ha fatto sentire alcun conforto. La sua sofferenza dovette essere molto intensa, dato che la malattia durò 10 anni, senza lasciargli la possibilità di fare alcunché.
SK 1294 - Del p. Girolamo Biasi 1939
Mentre era chierico nel Collegio Internazionale dei Frati Minori Conventuali, p. Girolamo Biasi richiamava un'attenzione particolare da parte mia, per il fatto che egli non si distingueva dagli altri, compiva gli atti comuni insieme con tutti; era gioviale durante la ricreazione e faceva ogni cosa in modo esemplare; “ha fatto bene ogni cosa” [Mc 7, 37], si poteva dire anche di lui. Ecco perché cercavo di avvicinarmi a lui.
Anche per questo motivo al Laterano egli ricevette pure una medaglia d'oro, eppure, al contrario degli altri alunni del Laterano, egli doveva trovare il tempo sia per recitare l'ufficio divino sia per recarsi ogni giorno dal collegio al Laterano e viceversa.
Allorché egli cadde ammalato, io andavo volentieri a fargli visita, poiché era di grande edificazione durante la malattia.
Benché non godesse di una salute troppo forte, tuttavia non si arrendeva alla malattia e talvolta diceva: “Noi trentini siamo di ferro”.
Egli e p. Pal, della Provincia di Romania, furono i primi ad aderire alla M.I., e così ebbe inizio l'associazione della M.I. fra i primi tre membri.
Quando lasciai il collegio, non vidi nessun altro cui poter affidare tranquillamente la causa della M.I. in collegio all'infuori di fr. Girolamo Biasi. Non ci incontrammo più su questa terra; soltanto nel 1930 andai a trovarlo ormai in cimitero e ascoltai molte cose sulla sua vita virtuosa, sulla sua attività apostolica e sulla sua santa morte, avvenuta a Camposampiero: cose tutte che possono essere raccontate in modo più accurato da coloro che le hanno osservate da vicino.
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Nato a Serrone (Frosinone) l’11 luglio del 1891.
A 17 anni, il 30 ottobre 1908, Quirico entrò nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, iniziando il Noviziato a Zagarolo (Roma); emise la professione religiosa il 14 novembre 1909 quelli Solenni l’8 dicembre 1913. Terminati gli studi ginnasiali, fu mandato a Roma per seguire il corso filosofico (1911-1913) presso l’Università Gregoriana e poi quello teologico (1914-1917) presso la Pontificia Facoltà di S. Bonaventura, oggi “Seraphicum”.
In quegli anni conobbe ed ebbe compagno di studi, il giovane chierico polacco e futuro santo Massimiliano Kolbe, il quale nutrì per Quirico profonda stima ed amicizia, tanto da convincerlo il 16 ottobre 1917, a diventare cofondatore con altri sei confratelli, del movimento mariano “Milizia di Maria Immacolata”.
Il 10 agosto 1917 fu ordinato sacerdote.
Nel 1925 fu nominato maestro dei novizi, impegno che poi assolse per quasi 50 anni.
Emulo del santo fondatore Francesco, viveva una vita austera, semplice e povera, dedito alla preghiera e immerso nella contemplazione, praticava una dura penitenza fatta di digiuni, di mortificazione e discipline corporali, veglie notturne prolungate; si cibava con l’indispensabile e si dissetava con acqua calda.
Nel 1937 di passaggio in Italia, P. Kolbe proveniente dal Giappone, aveva voluto fermarsi al Piglio per rivedere il suo antico compagno di studi, e per organizzare meglio la ‘Milizia di Maria Immacolata’ in Italia.
Il 1° aprile 1979 ebbe la gioia di incontrare papa Giovanni Paolo II, che lo abbracciò sapendo che era l’ultimo rimasto dei fondatori della Milizia di Maria Immacolata. Morì ad Anzio il 18 luglio 1982 a 94 anni.
Ci ha lasciato alcuni manoscritti, come raccolta dei suoi appunti di meditazione personale, di sermoni di circostanza, istruzioni, schemi di predicazione, ricordi, lettere.
Il 29 giugno 1992 è stata introdotta la causa di beatificazione.
Il 3 marzo 2016 è stato proclamato Venerabile da Papa Francesco.
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Fra Antonio Maria Mansi nacque a Londra il 9 marzo 1896, da Maria Michela e da Bonaventura Mansi da Ravello (Salerno).
All'età di 13 anni, nella festa di Sant’Antonio, Antonio vestì l'abito dell'Ordine francescano dei Frati Minori Conventuali, nel convento di Ravello.
Fu inviato a Bagnoregio (Viterbo) per gli studi ginnasiali, e ad Assisi per il noviziato. Sulla tomba di San Francesco il 4 ottobre 1914 emise la professione semplice.
Poi Fr. Antonio fu inviato a Montottone (Marche) per il corso filosofico.
Per la teologia venne mandato a Roma nel Collegio Serafico, dove incontrò Fr. Massimiliano, di cui divenne amico.
Il 19 marzo 1918 Fra Antonio Mansi emise la Professione solenne nelle mani di S. Em. il Cardinale Boschi e ordinato sacerdote il 9 maggio 1918 nella Cappella del Collegio.
Come uomo di cultura, Fra Mansi parlava bene l'inglese, il francese, il latino e conosceva il greco. Coltivò con successo la poesia, il canto e la musica, in cui si perfezionava presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma, mostrando un vivo talento.
Anch’egli, come Padre Glowinski, si ammalò di influenza spagnola, contratta mentre curava un Padre. Morì il 31 ottobre 1918, offrendo la propria vita per il bene della Chiesa, per il Pontefice Benedetto XV e per l'Ordine e invocando il nome di Maria.
Sk 1040 - Ricordi di ottobre Rycerz Niepokalanej, X 1923, p. 145-148
Era l'anno 1917 (…)
La febbre spagnola infieriva sempre di più. Tornai a Roma.
Appena entrato nella portineria del collegio venni a sapere che il chierico Antonio Mansi era stato assalito in modo grave dalla febbre spagnola.
Nonostante la proibizione generale di intrattenersi con gli ammalati, per timore di contagio, ottenni il permesso di fargli visita. Il medico ormai non dava più speranza, la morte si avvicinava rapidamente. Il rettore del collegio, p. Stefano Ignudi, senza preoccuparsi della contagiosità della malattia, rimaneva presso il letto del malato.
Fr. Antonio, dal canto suo, profittava di tale circostanza per accumulare un numero sempre più grande di atti di obbedienza. E così, tra l'altro, chiedeva il permesso di poter intonare una canzoncina alla Madre Santissima e, avutolo, incominciava a cantare, nonostante la debolezza, un bellissimo canto in lingua italiana: “Sei pura, sei pia, sei bella, o Maria; ogni alma lo sa che madre più dolce il mondo non ha”.
Scorrendo qualche tempo dopo i suoi scritti, abbiamo trovato una poesia che egli aveva composto in onore del beato Bonaventura da Potenza, francescano; in essa si trova la seguente strofa: “Morendo con il canto dell'Ave Maria, ci sia concesso di volare in cielo con te”.
E gli fu concesso. Non si distingueva in nulla dagli altri, ad eccezione del fatto di osservare scrupolosamente ogni prescrizione e di far bene ogni cosa, anche quelle ordinarie.
Quale fosse il fondo della sua anima ce lo svelano le note personali scritte in data 27 settembre 1915.
In quel periodo l'esercito faceva gli arruolamenti e il governo, influenzato dalla massoneria, violava le più elementari concezioni sulla missione delle persone consacrate a Dio e arruolava sotto le armi anche i chierici.
E così, prima di recarsi a salutare i genitori e di presentarsi alla visita militare, egli scrisse su un quadernetto, che noi abbiamo trovato dopo la sua morte: “Ed ecco, o Gesù, nelle tue intenzioni è giunta ormai l'ora anche per me... Devo partire... Sicuramente sei Tu che lo vuoi, o almeno lo permetti... Inoltre, è conforme al desiderio del tuo Cuore paterno che in quest'ora, per me incerta, io vada ad esprimere ai miei genitori gratitudine e amore. Va bene. Ma... che sarà di me? O Gesù, che farò io, barchetta squassata in mezzo alle insidie del mare delle occupazioni mondane?
“Ah! Padre buono, Amico fedele, ecco la prima cosa che Ti chiedo: se devo sopportare questa prova, fa' che io non soccomba sotto di essa, ma che io voli sempre con il cuore verso di Te, o divino Amante, Sposo dell'anima mia!
Ho rinunziato al mondo; perciò, o Gesù, che esso non mi contamini, non divenga mai padrone del mio cuore, dei miei sentimenti, dei miei pensieri, della mia volontà.
Tornerò, o Signore, a cantare la tua lode presso i tuoi altari insieme con i confratelli tanto amati? Riprenderò presto la dolce occupazione dello studio, il mezzo più santo e indispensabile per diventare un tuo zelante sacerdote?
Tornerò a registrare su questi fogli di carta le consolazioni della mia anima, i miei progressi spirituali, le mie cadute?...Non lo so. “Ti dico solo questo: Tu hai voluto così e io vado a compiere la Tua santissima volontà. E dichiaro che bramo compiere sempre questa volontà. “Può darsi, o Signore,e io non ne dubito, che la mia natura si agiti, si ribelli e perfino rifiuti di obbedire, ma Tu volgi lo sguardo alla mia costante intenzione; fortificami quando sarò debole; vieni in mio aiuto quando sarò barcollante e sorreggimi; perdonami quando cadrò e rialzami.
“Quanto al motivo che mi strappa dalla umile celletta, non so che cosa dire, o Signore, non so che cosa scegliere, che cosa chiedere: se di essere liberato da questo peso (e confido fermamente che Tu lo possa fare), oppure se andargli addirittura incontro.
“Perciò, è meglio che io mi rivolga a Te: Tu conosci la mia natura, le mie capacità, la mia forza, quel poco di cui dispongo.
Ah, Ti supplico, o Padre buono, interessati Tu stesso di questa faccenda e mettimi pure dove vuoi! Devo fare il soldato? Permettimi allora, in mezzo a quegli spaventosi pericoli dell'anima, di poter svolgere anche in quella situazione la bella missione, alla quale mi hai chiamato, di portare sollievo alle anime per mezzo delle opere di misericordia e dare ad esse la felicità facendomi guida di molte, molte anime, per condurle tutte a Te. Vuoi che io torni e indossi di nuovo tra breve tempo il caro abito religioso?
Oh, venga quell'ora benedetta! e io Ti sia riconoscente con una vita più fervorosa, ancor più amante delle prescrizioni religiose, dell'obbedienza e di questa amata convivenza fraterna. “In una parola io dichiaro, o Gesù, che da questo momento voglio accettare tutto dalle Tue santissime mani, vita o morte, gioia o tristezza; attesto ancora che voglio essere sempre un Tuo fedelissimo amante, memore dei voti religiosi che mi hanno legato dolcemente a Te; voglio essere un figlio tenerissimo della Tua cara Madre, nelle cui mani misericordiose spero di esalare il mio spirito, finché non mi prenderai presso di Te, per godere eternamente con Te in paradiso.
“Così avvenga, o Gesù. “Viva Gesù e viva Maria!”. E con un canto a Maria sulle labbra rese l'anima nelle sue mani: era il 31 ottobre 1918. R.N.
SK 1247 - Egli coltivava in modo sublime l'umiltà, l'obbedienza, la pazienza, la semplicità, la povertà religiosa, l'amore fraterno, l'impegno nella più esatta osservanza delle regole, la fede più viva, l'attaccamento più tenero alla preghiera, alla gloria di Dio, alla Chiesa, al santo Padre e all'Ordine, una speranza ferma e incrollabile, per cui egli scriveva:
“Voglio chiamarmi fr. Antonio della speranza” e nelle sue composizioni letterarie si firmava: “Speranza”. Era felice e gelosissimo custode della sua castità, per il fatto che era pieno d'amore verso la Ss. Vergine Maria.
Egli poi aveva nascosto tutte le sue virtù e le teneva al sicuro con la pratica di una vita nascosta, interiore e, con un atteggiamento semplice, sereno, naturale, faceva di tutto per non mettere in evidenza nessuno dei grandi tesori di cui Dio lo aveva arricchito.
Dotato di particolari capacità, di gusto letterario e artistico, coltivava pure la poesia, la lingua inglese (gli erano particolarmente care le opere di Faber), il canto e la musica, che studiava al Pontificio Istituto di Musica Sacra e nella quale lasciava sperare molto bene, a motivo delle sue capacità.
Prendeva nota di tutto ciò che di meglio poteva trovare per la scienza e per la pietà; ha lasciato alcuni manoscritti, veramente preziosi, dei suoi ricordi e delle sue riflessioni di vita spirituale, che dimostrano a quale sublime perfezione, prudenza, maturità di giudizio e saggezza il Signore avesse ormai innalzato questo suo servo in così giovane età.
Nel gennaio 1913 egli aveva letto la biografia di s. Giovanni Berchmans.
Da quel momento si era scelto come modello questo santo studente della Compagnia di Gesù e gli diceva interiormente: “Ti terrò sempre davanti agli occhi, o mio caro s. Giovanni Berchmans, o santo che tanto bene hai fatto alla mia anima”.
I nove giorni della sua ultima malattia, che furono per tutti una scuola di santità: obbedienza ai superiori, amore filiale verso i genitori, ai quali rivolgeva un pensiero pieno di affetto, distacco da ogni realtà terrena, conformità alla volontà di Dio, serenità e gioia del giusto, desiderio di essere sciolto, liberato da questa terra e di avviarsi verso il cielo.
Consumò le sue ultime energie in una preghiera quasi continua; non interrompeva mai l'unione della sua mente e del suo cuore con Dio.
Ricevette con grande devozione gli ultimi sacramenti dalle mani di p. Alessandro Basile, S.J.; ogni giorno chiedeva di poter essere nutrito e fortificato dall'Eucaristia.
Chiedeva al superiore il permesso di cantare qualche canzoncina alla Madonna e, ottenutolo, intonava il ritornello:
“Sei pura, sei pia, sei bella, o Maria; ogni alma lo sa che madre più dolce il mondo non ha”.
Si realizzava in questo modo la speranza che egli aveva espresso in un inno in onore del beato Bonaventura da Potenza (da lui composto):
“Agonizzante accanto a Te, cantando "Ave Maria", io possa volare al cielo”.
Nella notte che precedette il suo trapasso offrì a Dio la propria vita in sacrificio per il bene della Chiesa, per il santo Padre [Benedetto XV] e per l'Ordine.
Dopo il rito funebre in suo suffragio celebrato in collegio, fu sepolto nella tomba dei suoi confratelli nel cimitero chiamato “Campo Verano”.
Il 12 novembre a Ravello, accanto alla tomba del beato Bonaventura da Potenza, dove avrebbe voluto celebrare la sua prima Messa, fu celebrato un rito funebre con un discorso commemorativo.
Quale documento della santa disponibilità, della santità di quest'anima, riportiamo qui i sentimenti che egli annotò nel proprio diario in data 27 agosto 1915, allorché giunse la notizia di una sua probabile partenza per la guerra: “Ed ecco, nei tuoi piani, o Gesù, è giunta ormai l'ora anche per me...
Devo partire...
Sicuramente, sei Tu che lo vuoi, o almeno lo permetti...
Inoltre è conforme ad una ispirazione del tuo cuore paterno che, in quest'ora per me incerta, io parta, per dare ai miei genitori un segno di riconoscenza e di attaccamento.
Sì, va bene.
Ma... e che sarà di me?
O Gesù, che farò io, barchetta sconquassata in mezzo al mare tempestoso delle occupazioni mondane?
Ah! Padre buono, Amico fedele, ecco la prima cosa che ti chiedo: se dovrò essere sottoposto a questa prova, non permettere che io sia sopraffatto da essa, ma che voli sempre con il cuore verso di Te, o divino Amante, Sposo dell'anima mia!
Ho rinunciato al mondo, perciò, o Gesù, che esso non mi contamini, non divenga mai padrone del mio cuore, dei miei sentimenti, dei miei pensieri, della mia volontà!
Tornerò, o Signore, a cantare la Tua lode attorno ai Tuoi altari insieme con i numerosi amati confratelli?
Riprenderò presto la mia dolce occupazione dello studio, il mezzo indispensabile per diventare un Tuo zelante sacerdote?
Tornerò a scrivere su questi fogli i miei appunti: le consolazioni della mia anima, il mio progresso spirituale, le mie cadute?...
Non lo so.
Ti dico solo questo: lo hai voluto Tu, e io vado a compiere la Tua santissima Volontà.
Dichiaro che voglio compiere sempre questa volontà: può darsi, o Signore, e io non ne dubito, che la mia natura si agiti, resista e addirittura si ribelli, ma Tu volgi lo sguardo alla mia costante intenzione; fortificami quando sarò debole; vieni quando sarò barcollante e sorreggimi; perdonami quando cadrò e rialzami.
Quanto, poi, al motivo che mi strappa dalla mia piccola celletta, non so che cosa dire, o Signore, non so che cosa scegliere, che cosa chiedere: se essere liberato da questo peso (e confido fermamente che Tu lo puoi), oppure se andargli addirittura incontro.
Perciò, è meglio che io mi rivolga a Te: Tu conosci la mia natura, le mie forze, quel poco di cui posso disporre.
Ah! ti supplico, o Padre buono, interèssati Tu di questa faccenda e mettimi dove vuoi.
Devo fare il soldato.
Permettimi, allora, in mezzo a questi spaventosi frangenti, di poter svolgere anche in questa situazione la bella missione per la quale mi hai chiamato: sollevare le anime per mezzo delle opere di misericordia, renderle felici, facendomi guida di molte, molte di esse e conducendole tutte a Te.
Vuoi che io torni e indossi di nuovo il caro abito religioso?
Ah! venga quel momento benedetto e io ti sarò riconoscente con una vita più fervorosa e più amante della disciplina, con l'obbedienza e con questa amata convivenza fraterna.
In una parola, io dichiaro, o Gesù, che d'ora in poi voglio accettare tutto dalle Tue mani santissime: vita o morte, consolazioni o tristezza.
Attesto ancora che voglio essere un Tuo fedelissimo amante, voglio amarTi sempre con la maggior fedeltà possibile, memore dei voti che mi hanno legato dolcemente a Te; voglio essere un figlio tenerissimo della Tua cara Madre, nelle cui mani pietose spero di consegnare il mio spirito, finché non mi attirerai a Te per godere eternamente in paradiso.
Così avvenga, o Gesù. Gloria a Gesù, gloria a Maria”.
Dio, però, volle che egli fosse riconosciuto inabile alla vita militare, a causa di un grave disturbo alla vista.
Preghiamo per quest'anima eletta, con la viva fiducia che egli preghi per noi e ottenga a noi tutti ciò che lui stesso promise di impetrare in paradiso per coloro che lo hanno assistito e servito durante l'ultima malattia: una morte serena e gioiosa.
Padre Kolbe scriveva nel suo Diario: "Il 31 ottobre 1918, in mattinata, si è addormentato nel Signore Fra Antonio Mansi con una morte assai edificante. Prima di morire mi ha promesso di «farmi camminare dritto colle buone o colle cattive». Egli coltivava in modo sublime l’umiltà, l’obbedienza, la pazienza, la semplicità, la povertà religiosa, l’amore fraterno, l’impegno nella più esatta osservanza delle regole, la fede più viva, l’attaccamento più tenero alla preghiera, alla gloria di Dio, alla Chiesa, al Santo Padre e all’Ordine, una speranza ferma, incrollabile
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Padre Enrico Granata
Nacque a Lettere (Napoli) l'8 agosto 1888 da Giuseppe e da Giuseppa D'Antuono.
Entrò nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1914, quando aveva già completato gli studi liceali tra i redentoristi.
Iniziò l’anno di noviziato a Montella, ma lo compì a Santa Anastasia, dove erano stati trasferiti il Collegio e il Noviziato, e dove fece la professione semplice il 23 novembre 1915.
Cominciò il corso teologico a Barra, ma lo completò a Roma (1916-1918), presso il Collegio Serafico, dove il 21 novembre 1917 emise i voti solenni. Il 28 aprile 1918 fu ordinato sacerdote dal Card. Vicario Basilio Pompili nella Chiesa di S. Andrea della Valle.
Fu destinato prima a Santa Anastasia e poi a Ravello. Poiché in quegli anni la Provincia di Napoli aiutava la Provincia d'Abruzzo, prestò la sua opera a Lanciano e a Pettorano come parroco.
Superstite al martirio di san Massimiliano, Padre Granata, il 12 marzo 1962, depose al processo apostolico di Padova per la causa di beatificazione.
Con evidente commozione mostrò appesa al collo la Medaglia Miracolosa ricevuta la sera del 16 ottobre 1917 da Padre Pal insieme con Padre Massimiliano.
Ricoverato nella Casa di Riposo di «S.M. Immacolata» a Bagni di Tivoli, vicino Roma, sopportò l'età e l'infermità con animo sereno e raccolto.
Si spense il 24 gennaio 1964, all'età di 75 anni.
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(…)
Santità: chiamata e risposta
Eravamo partiti dalla domanda: che cosa accade, quando sta crescendo un santo? La risposta di Guardini è stata: «Accade qualcosa che deriva da Cristo. Una persona si è messa interamente a disposizione di Cristo, ed Egli l’ha attratta entro il suo particolare ambito creativo in cui esplica l’effetto della Sua presenza nella storia».
Nella esplicazione di questa frase possiamo riconoscere quello che noi oggi chiamiamo «vocazione alla santità». Lumen gentium n. 7 parlando di Cristo, capo del corpo che è la Chiesa, dice che tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi formato (cf. Gal 4,19); parlando poi della vocazione alla santità dei presbiteri, il Concilio Vaticano II presenta come modelli «coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l’Apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e santità di vita: “Ormai non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me” (Gal 2,20)» (Presbyterorum ordinis, n. 12).
In effetti, quando delinea la figura del santo, Guardini non pensa affatto alla santità canonizzata, ma a ciò che con il termine «santo» intendono il Nuovo Testamento e san Paolo in particolare. La voce «santo» del Dizionario di Teologia Biblica curato da X. Léon-Dufour – ormai un classico – scrive: «I cristiani partecipano di fatto alla vita di Cristo risorto mediante la fede e mediante il battesimo che dà loro “l’unzione venuta dal santo” (1Cor 1,30; Ef 5,26; 1Gv 2,20). Sono quindi “santi in Cristo” (1Cor 1,2; Fil 1,1) per la presenza in essi dello Spirito Santo (1Cor 3,16s; Ef 2,22)…».[17]
Il santo è questo. Il magistero del Vaticano II non ci lascia alcun dubbio: «tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (Lumen gentium, n. 40). Nulla di eccezionale, dunque, nulla di portentoso. Romano Guardini è d’accordo: «nel Nuovo Testamento il termine “i santi” significa semplicemente coloro che credono in Cristo, sono battezzati e si sforzano di vivere alimentandosi a questa fede».[18]
Tutto semplice, dunque? Nient’affatto. Il si sforzano che abbiamo appena ascoltato ci riporta al testo paolino che tanto ha attirato quella di R. Guardini e la nostra attenzione e che ora dobbiamo ripetere con la sua premessa: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (vv. 19-20). Poiché non sono un biblista, torno a riprendere il commento del p. Vanhoye: «“Sono stato crocifisso con Cristo”: Quanta audacia in questa dichiarazione! Dimostra un legame fortissimo con Cristo, un immedesimarsi affettivo ed esistenziale con lui e manifesta nel contempo una duplice convinzione: 1) che Cristo ha preso i credenti con sé nella sua morte; 2) che questo evento supera i limiti della cronologia storica e ha una attualità sempre presente. Paolo usa qui il verbo al perfetto, che in greco esprime il risultato perdurante di una azione passata: “Sono stato crocifisso e lo sono ancora”. Questo corrisponde alla condizione effettiva del credente: essendo ancora nella vita terrena, egli si trova nel periodo di attuazione della passione di Cristo, la quale condiziona la sua partecipazione alla vita di Cristo risorto».[19]
Paolo, dunque, partecipa alla passione di Cristo e si sente quasi con-crocifisso con lui un po’ alla stessa maniera con la quale, sul luogo chiamato Cranio, erano crocifissi i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra (cf. Lc 23,33). Egli stesso, anzi, allarga questa sua condizione a quanti sono stati battezzati, quando scrive che «l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato» (Rom 6,6-7).[20]
Tutto questo significa che la in-esistenza di Cristo nel battezzato se pure è un dato che lo tocca nel suo essere («santità ontologica del cristiano») e lo trasforma in nuova creatura (cf. 2Cor 5,17), esige un adeguamento dell’intera esistenza alla nuova situazione («santità morale») e questo è un compito per tutta la vita.
Per rimanere a San Paolo, è nota la sua analogia con il correre verso la meta: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti» (Fil 3,12-15). Qui l’Apostolo pone sullo stesso piano il raggiungere la meta della vita cristiana, il suo fine e l’essere perfetto. I perfetti («santità perfetta», o perfezione cristiana) sono quelli che sono giunti al pieno sviluppo della vita e del pensiero cristiano, alla maturità spirituale: questo, però, sarà definitivo per ciascuno solo dopo la morte.[21]
Guardini scrive che credere e essere battezzato significa essere inserito e vitalmente inserirsi nell’atto eterno dell’Agnello immolato, che vive e ha il potere di sciogliere i sigilli (cf. Ap 5,6). E questo mediante una vittoria sempre nuova affinché Cristo “si formi in lui” (Gal 4,9), ed egli così cresca fin alla pienezza dell’età di Cristo (Ef 4.13). La figura della persona e del destino di Cristo, con la sua vivente pienezza di forze viene nuovamente generata in ogni credente, e lo sospinge a crescere nella sua speciale esistenza e, progredendo, a realizzare la pienezza delle sue possibilità».[22]
In effetti la santità è sempre un dono che si fa compito (Gabe und Aufgabe). La santità è grazia, ma proprio per questo impegna. Per un battezzato – lo ripete anche Guardini – giunge sempre il momento (kairos) in cui c’è «la domanda se voglia essere cristiano assumendone la responsabilità reale – una decisione che egli deve mantenere in vigore continuamente di fronte all’estraneità e ostilità del suo ambiente, e che anzi deve assumere di nuovo, quando l’atteggiamento di tale ambiente gli diviene chiaro per via di nuove conseguenze».[23]
Su questo fronte, però, si apre il discorso riguardo alla santità canonizzabile, o canonizzata. Che R. Guardini guardi anche ad essa è confortato da una sua affermazione, che mostra pure come per lui il santo nel quale la in-esistenza si è mostrata nella forma più alta è Francesco d’Assisi. Scrive: «[I santi] esprimono Cristo. Traducono colui che è il Signore e l’essenza in una particolare possibilità umana della struttura, del livello sociale, del tempo, del bisogno, del compito. Questo lo fanno tutti; Francesco fa di più: egli non traduce, bensì rende nuovamente presente [vergegenwärtig]. Chi giunge a lui deve pensare a Cristo … La sua figura è costruita in modo tale, la sua parola, i suoi gesti, la sua vita intera sono tali da essere concretizzazioni immediate del Vangelo; sequela letterale; imitazione pura dell’esistenza di Gesù senza alcuna attenuazione e reinterpretazione – tanto che è il volto stesso di Cristo a trasparire dal suo, sono i gesti di Cristo a manifestarsi nei suoi. Non so di nessun altro, del quale si possa affermare lo stesso».[24] Questo, però, è un altro argomento e io vi ringrazio per essere stati fino ad ora pazienti e buoni con me.
Pontificia Università Lateranense, 14 dicembre 2022
Marcello Card. Semeraro
San Massimiliano Maria Kolbe
Fondatore della Milizia dell’Immacolata
La prima squadra dell’Immacolata
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Padre Giuseppe Pietro Pal
Nacque il 6 ottobre 1889 a Zapodia in Moldavia (Romania)
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fr. Antonio Głowiński
Nacque a Galati (Romania) il 12.06.1892, vigilia della festa di S. Antonio di Padova
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Fr. Girolamo Biasi
Nacque il 7 dicembre 1897 a Sfruz (Trento)
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fr. Quirico Pignalberi
Nato a Serrone (Frosinone) l’11 luglio del 1891
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fr. Antonio Mansi
Nacque a Londra il 9 marzo 1896
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fr. Enrico Granata
Nacque a Lettere (Napoli) l'8 agosto 1888

“Gesù Cristo è l’Unico Mediatore fra Iddio e l’umanità; l’Immacolata è l’Unica Mediatrice fra Gesù e l’umanità e noi saremo i felici mediatori fra l’Immacolata e le anime sparse in tutto il mondo. Che bel compito! [Non] è vero?”